17 dicembre 2022

Le ricadute dell'avvento del digitale sulla libera informazione. Una sfida ancora aperta

Luci e ombre della tecnologia

 

di Isabella Piro

 

Partiamo dalla storia: il 5 agosto 1735, negli Stati Uniti, viene emessa la sentenza del caso "Zenger/governatore coloniale di New York". John Peter Zenger, editore del «New York Weekly», era stato denunciato dal governatore Cosby, che voleva conoscere il nome del collaboratore che scriveva pezzi satirici contro di lui. Zenger non fece nomi e finì in carcere. Dopo otto mesi di detenzione, si celebrò il processo che lo vide assolto. Nasceva così la nozione di "libertà di stampa". Ora facciamo un balzo temporale in avanti: anno 1999, viene pubblicato Napster, il primo sistema di file sharing di massa. Gli utenti di Internet sono 200 milioni in tutto il mondo. Si avvia così la rivoluzione digitale.

Quindi mettiamo a confronto questi due momenti storici e domandiamoci quali ricadute ha avuto l'avvento del digitale sulla libertà di stampa. La risposta non è univoca, in quanto Internet, nel corso degli anni, ha giocato un ruolo ambivalente nei confronti della libera informazione. Ne è convinto Alessandro Longo, direttore della testata Agenda digitale che, al telefono del nostro giornale, spiega: «In generale, l'avvento del digitale ha allargato tantissimo l'ecosistema in cui i media si sono trovati, un ecosistema più grande che coinvolge non solo le aziende, ma anche i cittadini con i quali ora si può avere una comunicazione diretta».

Da questo punto di vista, quindi, la prima conseguenza che il digitale ha avuto sulla libertà di stampa è positiva e riguarda «la possibilità, ma anche l'obbligo di una massima trasparenza e apertura dei media nei confronti degli utenti». I mezzi di informazione, infatti, «si trovano costretti a dialogare con le fonti in modo più ampio e trasparente, c'è l'obbligo a sentirsi parte di un coro. Anzi: c'è la possibilità di accedere in modo più diretto a fonti che, magari, prima erano esclusive o prerogativa di pochi».

Un flusso informativo così fatto, inoltre, «obbliga i giornalisti sia a un confronto più serrato con il pubblico, sia a poter indirizzare meglio l'informazione», sottolinea Longo.

Ma non è tutto oro quello che luccica perché allo stesso tempo la rivoluzione digitale toglie risorse economiche, rendendo i media più vulnerabili e ricattabili. «L'informazione smette di essere una risorsa scarsa e ciò pone delle pressioni economiche sulla sostenibilità di tutti i media editoriali - evidenzia ancora il direttore -. Si crea un paradosso: ci sono più informazioni, sono più accessibili, si possono fare meglio perché più trasparenti, però ci sono meno risorse per farle bene». Anche perché, continua Longo, «sempre più giornalisti hanno timore ad affrontare alcuni temi, in quanto sanno che un'eventuale causa legale sarebbe poco sostenibile economicamente, considerate le poche risorse a disposizione». Anche le fonti «non hanno più l'esigenza di passare attraverso i giornalisti, ma possono comunicare direttamente con il pubblico, creando ulteriori problemi a chi vuol fare emergere la verità».

Un'ulteriore ricaduta negativa riguarda la disinformazione: «Il pluralismo delle fonti può minare una narrazione fondata sui fatti, deontologicamente corretta - afferma ancora Longo - perché oggi è difficile far emergere le fonti più attendibili che spesso vengono sovrastate da altre meno affidabili». E i social network, che a volte forniscono una piattaforma per campagne di odio, ne sono un esempio. Si tratta di campagne che colpiscono per lo più le donne: nel 2021, quasi tre quarti delle giornaliste hanno sperimentato qualche forma di abuso online, compresa la sorveglianza e le minacce di violenza sessuale. Senza dimenticare che le campagne d'odio e di disinformazione sono spesso condotte da supporter di alcuni governi nel mondo.

C'è poi un ultimo aspetto, ossia il rischio sorveglianza. «È il rovescio negativo del mondo digitale - conclude Longo -, perché se il digitale consente con più facilità l'accesso all'informazione, però ne permette anche l'accesso abusivo. Quindi i giornalisti corrono il rischio di essere sorvegliati, ad esempio, da potenze straniere, come accade a chi tratta informazioni di interesse nazionale in Paesi dittatoriali. E il medesimo rischio lo corrono le fonti». Il pensiero va al caso esploso in Spagna lo scorso maggio e riguardante il software spyware "Pegasus": ufficialmente venduto soltanto a governi o agenzie governative di intelligence per l'intercettazione di terroristi e criminali, il software sarebbe stato in realtà utilizzato per spiare giornalisti, oppositori e politici.

A questo punto viene da chiedersi: le istituzioni cosa fanno per contrastare tutto questo?

Un esempio positivo arriva dall'Unione europea che, a settembre, ha proposto il Media freedom act, ovvero un nuovo insieme di regole per proteggere il pluralismo e l'indipendenza dei media in Europa. La proposta prevede finanziamenti stabili per il mondo dell'informazione; stabilisce requisiti di trasparenza su proprietà e azionisti dei media e sull'allocazione della pubblicità statale; vieta l'uso di spyware sui giornalisti da parte delle autorità dei Paesi membri e guarda anche a specifiche misure per regolare le fusioni di mercato. Per quanto riguarda i contenuti digitali, il nuovo insieme di norme include garanzie contro la rimozione ingiustificata di contenuti multimediali prodotti secondo standard professionali: in pratica, nei casi che non comportano rischi sistemici come la disinformazione, le piattaforme molto grandi come Facebook che intendono rimuovere contenuti multimediali ritenuti contrari alle proprie politiche, dovranno sentire i media sui motivi prima di agire. Nuovi diritti, infine, anche per gli utenti: la proposta di regolamento prevede che possano personalizzare l'offerta multimediale su dispositivi e interfacce, come le smart tv. Insomma, gli strumenti sulla carta sembrano esserci tutti. Ora però bisogna applicarli, affinché la libertà di stampa non abbia bavagli.

 

(Da L'Osservatore Romano, venerdì 16 dicembre 2022)