30 maggio 2022

In ascolto, con Mimmo e Michele

di Piero Di Domenicantonio - L'Osservatore Romano

 

È proprio vero che comincio a farmi vecchio, come dice mio padre solo adesso che si prepara a spegnere la sua novantacinquesima candelina. Se non è per l’età anagrafica, lo è per il fatto che sempre più spesso mi ritrovi a parlare, o a scrivere, di me stesso. Preferisco pensarla così: che l’abusare dell’uso della prima persona singolare dipenda dall’aver cominciato a esercitare il ruolo di nonno e di pensionato, piuttosto che da una mia narcisistica concessione al selfismo oggi di moda. Una pratica, questa, diffusa anche nel mondo del giornalismo e di fronte alla quale ho cercato, negli anni di lavoro nella redazione di questo giornale, di contrapporre un vecchio principio della professione che dice che al lettore interessano i fatti più che le opinioni del cronista.

Ma la deroga, in questa circostanza, è inevitabile. Anche perché riguarda l’esperienza umana e professionale che sto vivendo in questi mesi. Un giornalista, com’è per il medico o il prete, non finisce mai di fare il proprio mestiere. Così, pur godendo del privilegio di evitare le alzatacce mattutine che il lavoro di redazione richiede, ho cominciato a mettere in pratica quello che Papa Francesco aveva raccomandato nel messaggio per la giornata delle comunicazioni sociali dell’anno scorso: «consumare le suole delle scarpe» per incontrare e raccontare «le persone dove e come sono». E ci ho aggiunto un sogno — anche questo mi fa pensare alle parole del Papa sul ruolo dei vecchi — quello di realizzare un giornale di strada, un “Osservatore di Strada”, attraverso il quale dare voce a chi solitamente non viene ascoltato e neppure considerato, ai senza fissa dimora, ai migranti, ai fragili, a chi è messo alla porta ed escluso. Nella convinzione che anche tra gli scartati ci sia un patrimonio di esperienze — a cominciare da quella del dolore e dell’abbandono —, di saperi — foss’anche solo l’arte di arrangiarsi — e di valori — semplicità, amicizia, solidarietà — che vale la pena conoscere e recuperare. Insomma, un giornale dei poveri, per i poveri e soprattutto con i poveri. Realizzato dando modo di esprimersi a chi ha un talento per la scrittura o per il disegno e anche a chi non li ha, ma ha una storia da raccontare o un’opinione da esprimere.  Alcuni scrittori e poeti hanno già accettato di lasciarsi coinvolgere e di condividere il proprio mestiere per riportare sulle pagine del giornale il frutto di una relazione diretta, faccia a faccia con l’altro.

È stato proprio inseguendo questo sogno — che spero possa concretizzarsi a breve — che ho sperimentato quanto sia importante imparare ad «ascoltare con l’orecchio del cuore», come raccomanda Papa Francesco nel messaggio per la giornata di quest’anno.  Due i miei maestri: Mimmo, un senza fissa dimora, e Michele, un operatore della Caritas di Roma. 

Mimmo arriva dal nord. Un bel giorno ha mollato tutto e si è messo a camminare. Si è fermato in Liguria per un po’ di tempo, poi ha attraversato l’appennino, dove ha fatto anche il pastore, e, qualche mese fa, è arrivato a Roma. L’ho conosciuto grazie a una suora dell’Aventino che mi ha mandato la fotografia di un manifesto che annunciava nella basilica dei Santi Bonifacio e Alessio «momenti d’incontro tra i senzatetto e gli altri, per conoscere meglio una realtà poco conosciuta e che spaventa». Ideatore dell’iniziativa, e pure del manifesto, è proprio Mimmo che, con l’aiuto dei chierici regolari somaschi e di un laico, è riuscito a portare nell’antica basilica, una delle più richieste della città per la celebrazione dei matrimoni, alcuni compagni di strada e qualche abitante del posto. 

In quegli incontri ho imparato che c’è una povertà trasversale, che non risparmia nessuno. È la povertà dell’ascolto, che ci fa sentire estranei all’altro, lontani, soli nonostante il rumore di fondo delle notifiche che arrivano sui nostri cellulari. Grazie Mimmo, per avermi insegnato — come hai scritto sul tuo manifesto sotto un cuore spezzato — che «la diffidenza e la paura ci dividono. La conoscenza e l’amore ci riuniscono». 

Michele ha 32 anni e quasi ogni notte gira con la macchina della Caritas per incontrare le persone che dormono in strada, semplicemente per chiedere come stanno, se hanno bisogno di qualcosa. Una notte l’ho accompagnato al Mandrione, sulla Tuscolana. La zona non è più quella raccontata da Pasolini e della scuola popolare di don Sardelli, ma qualcuno continua a usare gli archi murati dell’acquedotto Felice come riparo per la notte. Ci siamo fermati davanti a un mucchio di cartoni nascosti tra i cespugli. Michele si è avvicinato e la prima cosa che ha detto, chinandosi, è stata: «È permesso? Buonasera». «Siamo noi — mi ha poi spiegato — che entriamo nelle loro case, anche se sono fatte di cartone o di una coperta. È importante presentarsi con il proprio nome prima di chiedere il loro. Chinarsi quando stanno seduti o sdraiati nel sacco a pelo per potersi guardare negli occhi. E non è detto che, visto che siamo buoni e li andiamo a trovare, debbano per forza accettare il nostro aiuto. Dobbiamo mettere in conto anche la possibilità di un rifiuto, che non abbiano voglia di parlare perché la giornata è stata dura, perché hanno dolore ai piedi o perché semplicemente hanno voglia di restare soli, coi loro pensieri».

Grazie Michele, per avermi insegnato come articolare l’orecchio del cuore. Rispettando l’altro, perché anche la povertà più estrema non cancella la dignità della persona. E facendoci umili, perché non è il nostro benessere o la nostra presunta bontà a renderci migliori.

Concludo con un’altra aspirazione — si vede che a bazzicare la terza età si finisce davvero per ritrovarsi sognatori. Quella di vedere inserito nei corsi di aggiornamento professionale che i giornalisti sono tenuti a fare anche un corso sull’ascolto. In cattedra, suggerisco, Mimmo e Michele.

 

[da: L'Osservatore Romano, n. 121 (49.040), Anno CLXII,  sabato 28 maggio 2022]