di FAUSTO COLOMBO, Professore ordinario di Teoria e tecniche dei media presso la Facoltà di scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
L’appello di Papa Francesco nel discorso ai movimenti popolari del 16 ottobre scorso, rivolto ai giganti della tecnologia (e – in particolare, si direbbe — alle grandi piattaforme social, come Facebook, Instagram e Twitter) attualizza una preoccupazione che ha accompagnato l’attuale Pontefice fin dalla sua elezione: la promozione della comunicazione come risorsa umana fondamentale per la convivenza fraterna fra gli uomini, associata alla critica nei confronti di quelle strategie dei media — intesi non solo in quanto tecnologie, ma anche e soprattutto come imprese basate su specifici modelli organizzativi e di business — che pospongono la difesa dell’ecosistema della comunicazione ai propri interessi economici e politici.
Nell’accorato appello del Pontefice si rilegge la tradizione del Magistero nella riflessione sulle comunicazioni sociali (soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II ), ma anche un legame forte con la riflessione teorica contemporanea sulla cosiddetta “società delle piattaforme”.
Già nel 1971, l’istruzione pastorale Communio et progressio mostrava l’attenzione prudente e non banalmente entusiastica della Chiesa verso i media: «Molti esperti, (…) con validi motivi asseriscono che questi strumenti non fanno altro che rispecchiare e registrare i costumi già in atto nella società; altri invece ritengono che essi contribuiscono ad esaltare e più largamente propagandare quelle nuove tendenze; così mentre esse sono presentate come ormai invalse nel comune comportamento, a poco a poco s’introducono nel costume sociale. Ci sono poi altri che fanno ricadere la massima responsabilità di questa situazione proprio sugli stessi strumenti» (Communio et Progressio, 22).
Sia che i mezzi di comunicazione si limitino a rispecchiare le tendenze in atto nella cultura, sia che essi le amplifichino così da farle apparire dominanti, essi non possono comunque rinunciare alla propria responsabilità. Soprattutto, non possono farlo le donne e gli uomini che esercitano in essi un qualsiasi ruolo. Un elemento fondamentale della riflessione è quindi il fatto che la responsabilità coinvolge non soltanto gli emittenti della comunicazione, ma anche i suoi destinatari, chiamati a una continua opera di discernimento.
Questo aspetto merita ancora più attenzione a partire dallo sviluppo di Internet, dove, come sottolinea il documento redatto nel 2002 dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali: «L’interattività bidirezionale (…) sta già facendo svanire la vecchia distinzione fra chi comunica e chi riceve la comunicazione, e sta creando una situazione nella quale, almeno potenzialmente, tutti possono fare entrambe le cose. Non si tratta dunque più della comunicazione del passato che fluiva in una sola direzione e dall’alto verso il basso. (La Chiesa e internet, 6).
Anche questa apertura “democratica” della prima Internet – continuava il documento — doveva comunque essere guardata con attenzione, perché i discorsi “dal basso”, non meno di quelli “dall’alto” potevano dimostrarsi falsi, o violenti, o utilitaristici, in particolare per quanto riguarda le realtà religiose.
A partire dalla metà degli anni 10 del 2000, l’internet pluralista lasciò progressivamente spazio al web 2.0, caratterizzato dalla presenza dei social media e delle cosiddette piattaforme, di algoritmi in grado di trasformare i dati degli utenti in business, e di una nuova, aggressiva politica di proposta commerciale e comunicativa fortemente personalizzata.
Ecco allora che, nel 2009, Benedetto XVI ribadiva la necessità di prudenza nei confronti delle reti: «I mezzi di comunicazione sociale non favoriscono la libertà né globalizzano lo sviluppo e la democrazia per tutti semplicemente perché moltiplicano le possibilità di interconnessione e di circolazione delle idee. Per raggiungere simili obiettivi bisogna che essi siano centrati sulla promozione della dignità delle persone e dei popoli, siano espressamente animati dalla carità e siano posti al servizio della verità, del bene e della fraternità naturale e soprannaturale» (Caritas in Veritate, 73)
Il nuovo assetto della comunicazione globale — quel web 2.0 dominato dai grandi giganti digitali come Apple, Amazon, Facebook-Meta, Alphabet e Microsoft, che occupano 5 delle prime 6 posizioni della classifica mondiale delle imprese per fatturato — è oggi quello davanti al quale si pone specificamente Papa Francesco.
Già la Laudato si’ (2015) sottolinea infatti il rischio che gli interessi economici delle aziende comunicative possano prendere il sopravvento sulla loro possibile missione pubblica. Il realismo del Pontefice supera l’ottimismo di maniera di alcune prospettive teoriche e di alcune politiche legate alla prima fase di Internet, in base alle quali i media costituiscono sempre e comunque la risorsa tecnologica fondamentale per la produzione di una comunicazione migliore qualitativamente e più ricca quantitativamente. Nella Fratelli tutti (2020), Francesco ha formulato un’analisi precisa dei pericoli di strumentalizzazione dell’informazione per finalità di propaganda politica, delle pratiche comunicative che fomentano l’odio, la paura e lo sfruttamento dei più fragili. I rischi da lui enunciati trovano riscontro oggi in un’ampia serie di teorie critiche dei media, attente ai legami fra la cosiddetta “società delle piattaforme”, l’individualismo neoliberista e la crescita delle disuguaglianze e della sorveglianza sul cittadino-consumatore. In particolare, sono diventati emblematici eventi politici, come la Brexit o le elezioni USA del 2016, ampiamente turbati dalla circolazione incontrollata via social di notizie false. Durante la pandemia di Covid-19, l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), ha indicato nell’infodemia di false notizie uno dei rischi maggiori per la salute pubblica, evidenziando le responsabilità dei media, dei loro operatori e dei loro utenti. E la recente pubblicazione di documenti riservati di Facebook da parte di una ex dirigente ha mostrato, una volta di più, che le ragioni economiche spingono i social media e i grandi giganti della rete a limitare i controlli sulla qualità della comunicazione circolante: la comunicazione peggiore tende infatti ad essere più capace di suscitare interesse, venire letta e rilanciata dagli utenti, e così produrre quel traffico sulla rete che ne costituisce la vera ricchezza.
Tuttavia l’approccio di Papa Francesco si capisce ancor meglio se si guarda non solo alla denuncia, ma anche e soprattutto alla proposta: un richiamo alla responsabilità di ciascuno nel miglioramento della comunicazione. Il Pontefice non smette infatti di sottolineare il primato della relazione interpersonale, da tenere sempre come riferimento, perché l’impoverimento dell’ecosistema della comunicazione ci riguarda tutti: «I mezzi attuali (…) a volte (…) ci impediscono di prendere contatto diretto con l’angoscia, con il tremore, con la gioia dell’altro e con la complessità della sua esperienza personale. Per questo non dovrebbe stupire il fatto che, insieme all’opprimente offerta di questi prodotti, vada crescendo una profonda e malinconica insoddisfazione nelle relazioni interpersonali, o un dannoso isolamento» (Laudato si’, 47).
Francesco ha più volte individuato nella necessità di interrogarsi sulle finalità e il destino della relazione fra persone, l’unica matrice possibile di una convivenza autentica. E al di là dei suoi documenti e della sua predicazione, ci offre continui esempi e segni concreti di una comunicazione — anche attraverso i media — intesa come apertura all’altro. Davanti ai media onnipresenti, voraci dei contatti artificiali che spesso si generano fra utenti sconosciuti, il Pontefice richiama a una comunicazione più umana, dove alla frenesia del dire si sostituisce la pazienza dell’ascolto; all’isolamento nel rumore la solitudine della condivisione.
Un esempio su tutti: la preghiera in Piazza San Pietro sotto una pioggia battente illuminata dalle luci serali, per la fine della Pandemia (27 marzo 2020). Il format dei grandi eventi televisivi e mediatici in genere prevede la presenza fisica di folle visibili. Invece, quella piazza era deserta, e l’incredibile attenzione di milioni di utenti nel mondo era catalizzata dal Papa e dalla sua preghiera. Un rito senza pubblico presente ha così utilizzato i media che lo trasmettevano, senza metterli al centro, togliendo loro l’inevitabile autocompiacimento e mettendo per così dire il celebrante in contatto con ciascuno di noi.
Questo stile che prescinde dal successo mediatico, ma che sempre rimanda all’autenticità della comunicazione come apertura dialogica, come comunione con la sorella e il fratello, è l’arma decisiva, pacifica ed efficace, cui il Papa richiama tutti, piattaforme, media, cittadini e istituzioni: distinguere la comunicazione come affare economico dalla comunicazione come risorsa umana. E scegliere, sempre, la seconda.
(Da L'Osservatore Romano, 20 dicembre 2021)