di Colum McCann (da L'Osservatore Romano, giovedì 9 aprile 2020)
Nell’estate del 1932, Albert Einstein — mentre stava esplorando la “pulsione all’odio” degli uomini — scrisse una lettera a Sigmund Freud, domandandogli se riteneva possibile «dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione per liberare la civiltà dalla fatalità della guerra».
I due uomini erano, ovviamente, tra le menti più influenti del loro tempo. Einstein: il padre della relatività, il grande pacifista, il bizzarro scienziato interessato alla teoria del tutto. Freud: il famoso neurologo, il padre della psicanalisi, un esploratore della mente e del corpo.
Il mondo era sul filo del rasoio della distruzione e aveva già assistito, attraverso gli orrori della prima guerra mondiale, alle prime avvisaglie della rovina. Einstein e Freud sentivano la responsabilità morale e pubblica di pronunciarsi contro le inquietanti sterzate che vedevano modellare il mondo.
Einstein aveva un enorme interesse a coltivare l’idea di una pace mondiale, e riteneva che Freud potesse aiutarlo a trovare una risposta. Nella successiva replica ufficiale di Freud, che arrivò per posta alcune settimane dopo l’iniziale richiesta, l’austriaco si disse onorato perché gli era stata posta la domanda, ma riteneva piuttosto improbabile che qualcuno potesse essere in grado di sopprimere o modulare le tendenze aggressive degli uomini. Nel mondo non sono molte le persone la cui vita trascorre con mitezza, disse. È facile contagiare gli uomini con la febbre della guerra, e l’umanità ha un istinto attivo all’odio e alla distruzione. Secondo lui era alquanto improbabile riuscire a sopprimere le tendenze aggressive dell’umanità.
Tuttavia, alla fine della sua lettera Freud offriva un raggio di luce. Diceva che la speranza che la guerra avrà fine non è chimerica. Tutto ciò che creava legami emotivi tra le persone inevitabilmente agiva contro la guerra. Quello che bisognava ricercare, sosteneva Freud, erano «una comunione di sentimenti» e «una mitologia delle pulsioni». In altre parole: una storia.
Sua Santità Papa Francesco, di recente, con grande eloquenza, ha invitato il mondo a considerare la narrazione come uno dei mezzi più potenti di cui disponiamo per cambiare il nostro mondo. «Con lo sguardo del Narratore — l’unico che ha il punto di vista finale — ci avviciniamo poi ai protagonisti, ai nostri fratelli e sorelle, attori accanto a noi della storia di oggi» scrive. «Sì, perché nessuno è una comparsa nella scena del mondo e la storia di ognuno è aperta a un possibile cambiamento. Anche quando raccontiamo il male, possiamo imparare a lasciare lo spazio alla redenzione, possiamo riconoscere in mezzo al male anche il dinamismo del bene e dargli spazio».
La narrazione è la nostra grande democrazia. È quella cosa alla quale tutti abbiamo accesso. Raccontiamo le nostre storie perché abbiamo bisogno di essere ascoltati. E ascoltiamo storie perché abbiamo bisogno di appartenere. La narrazione travalica le frontiere. Scavalca i confini. Frantuma gli stereotipi. E ci dà accesso alla piena fioritura del cuore umano.
Ma le storie sono anche cose pericolose. Le storie sono armi. Le storie possono ferirci. Le storie possono spezzarci il cuore. Le storie possono portar via le nostre case, le nostre terre, le nostre nazioni. Stiamo ora vivendo in quella che viene definita sempre più un’“epoca esponenziale”: una sequenza di evoluzioni rapidamente punteggiate, una sorta di carosello della velocizzazione, dove tutto è più veloce-più piccolo, più veloce-più economico, più veloce-incomprensibilmente ridotto. Ma stiamo rifiutando sempre più di ascoltarci gli uni gli altri. Tanti di noi stanno entrando dentro. Stiamo tirando le tende. Stiamo bloccando i sistemi Gps sulla nostra immaginazione.
Ci piace pensare che ci ascoltiamo gli uni gli altri, ma in realtà non lo facciamo. Ci piace pensare che stiamo permettendo ai nostri figli di abbracciare il mondo, ma il più delle volte vogliamo solo isolarli. Sempre più sentiamo: Stai alla larga dalla mia verità! Non entrare nella mia stanza! Io sto a sinistra, tu a destra! Io ho ragione, tu hai torto! In tanti ambiti — specialmente nella sfera politica — vediamo il bisogno narcisistico di essere corretti. Siamo diventati così atomizzati, così piccoli, e siamo in crescente pericolo di separare con muri, sia letteralmente sia figurativamente, le nostre capacità empatiche. Entra, dunque, l’idea della narrazione.
Otto anni fa, nel 2012, ho avuto il grande privilegio di diventare uno dei cofondatori di Narrative 4, un’organizzazione mondiale per lo scambio di storie. Insieme a molti scrittori e attivisti — tra cui Lisa Consiglio, Ishmael Beah, Terry Tempest Williams, Darrell Borque, Greg Khalil e Assaf Gavron — abbiamo visto che il mondo era costruito di storie e che narrare la storia altrui poteva consentire quella “empatia radicale” che cercavamo di coltivare. La premessa era semplice: Tu racconti la mia storia, io racconto la tua. Ci domandavamo che cosa sarebbe accaduto se i semplici atti di ascoltare e parlare fossero diventati cose capaci di rafforzare le nostre idee di pace, uguaglianza, democrazia e comprensione.
Narrative 4 esiste ormai in 12 paesi, tra cui l’Irlanda, gli Stati Uniti, il Messico, il Sud Africa e, con un programma ancora agli inizi che speriamo di allargare, in Italia. Ogni anno vengono organizzati centinaia di migliaia di scambi, soprattutto attraverso insegnanti che, in fondo, sono i veri custodi di storie e narrazioni. Lavoriamo principalmente con adolescenti, ma il programma funziona praticamente con tutti, anche con bambini molto piccoli.
Quello che intendiamo fare in Narrative 4 è allargare i polmoni del mondo. È anche di questo che parlavano Einstein e Freud. E, naturalmente, è ciò che Papa Francesco ha riconosciuto così profondamente. Una comunità di sentimento e una mitologia delle pulsioni. E che cos’è una storia se non una mitologia delle pulsioni? E che cos’è un ascoltatore se non qualcuno che fa parte di una comunità di sentimento?
Ciò che Papa Francesco riconosce istintivamente è che, quando raccontiamo la nostra storia, offriamo in sacrificio ciò che ci è più caro. Dimorando nel nostro cuore e nella nostra testa, le storie sono tra le poche cose, insieme alla fede, che non ci possono essere tolte. Le nostre storie sono inattaccabili, perfino dalle pallottole. Ma dobbiamo riuscire a raccontarle. Ci deve essere dato lo spazio e il tempo. Dobbiamo essere ascoltati. E al tempo stesso dobbiamo diventare ascoltatori.
La scrittrice Zora Neale Thurston una volta disse che non c’è peso più grande da sopportare di quello di una storia non narrata. La sorgente di tanta nostra sofferenza nasce dall’incapacità di esprimere ciò che dimora nell’intimo.
È una delle verità più straordinarie dell’esperienza umana contemporanea: diventiamo realmente vivi solo se siamo disposti ad ascoltare ciò che è accaduto a qualcun altro, perché ciò che è accaduto a qualcun altro è accaduto, ora, a noi. Quindi, raccontate la vostra storia. E, soprattutto, ascoltate gli altri.
(Copyright © 2020, Colum McCann)