27 febbraio 2020

Guardarsi dentro (di Judith Thurman)

La vocazione di uno scrittore e la richiesta del Papa di racconti di unità e redenzione

 

di Judith Thurman (Da L'Osservatore Romano, giovedì 27 febbraio 2020)

 

[Scrittrice e produttrice statunitense, Judith Thurman è una delle firme più prestigiose di «The New Yorker». Dal 1987 scrive di letteratura, cultura e moda ed è un’attenta studiosa delle personalità che hanno segnato il XX secolo. Nel 1983 ha vinto il National Book Award per la saggistica con Isak Dinesen: The Life of a Storyteller, la biografia dedicata a Karen Blixen che ha ispirato il film La mia Africa diretto da Sydney Pollack. Con la biografia Secrets of the Flesh: A Life of Colette (1999) ha vinto il Los Angeles Times Book Award for Biography. Molti dei suoi lavori sono dedicati a grandi protagonisti del mondo della letteratura, dell’arte e della fotografia. Ha ricevuto numerosi premi letterari]

 

L’arte nel nostro tempo sempre deve resistere alla consolazione surrogata

Nel suo Messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, Papa Francesco comprensibilmente si concentra sugli aspetti «edificanti», «teneri» e «costruttivi» della narrazione. Egli è un pastore responsabile del benessere del suo gregge. E la prima direttiva per un pastore è di proteggere le sue creature dall’erranza o l’alienazione, ovvero dal pericolo di allontanarsi da una comunità stretta che offre protezione contro predatori.

Questa difficile situazione assume molte forme, fisiche o spirituali, che generano tutte vulnerabilità. Tuttavia, la politica contemporanea e la storia ci insegnano che c’è un altro tipo di pericolo, sia per l’individuo sia per la società, nella compiacenza di un gregge. A tale riguardo, l’alienazione può essere un correttivo critico a un conformismo irriflessivo. Spesso è incarnato dalla voce di una persona estranea, che sta in disparte per sfidare il genere di pensiero o di discorso che ispira violenza; il genere di ipocrisia che seduce l’ingenuo; l’isterismo di una folla. Come osserva il Santo Padre, abbiamo bisogno di coraggio per respingere i falsi racconti e le false rassicurazioni.

L’alienazione, naturalmente, è uno dei grandi temi e delle grandi dinamiche della letteratura moderna. Compare all’inizio del XIX secolo, con i Romantici, in parte come reazione ai mali della schiavitù, l’autocrazia, l’imperialismo, il capitalismo rapace e la distruzione della natura.

Due guerre mondiali, l’olocausto, la catastrofe climatica e i genocidi non hanno fatto altro che renderla più intensa. Dal mio punto di vista di scrittrice laica, l’arte, nel nostro tempo sempre più buio, deve resistere alla consolazione surrogata: e questo include l’agiografia. Il narratore non ha mai sentito un’urgenza più grande di riflettere sulla natura umana con tutti i suoi difetti, le sue crudeltà, le sue deformità, la sua irrazionalità e, per usare le parola del Papa, i suoi «mali». Le grandi storie non possono essere sempre “belle” e “buone”, come sembra riconoscere il Papa menzionando l’opera di Dostoevskij.

La stessa Bibbia, specialmente l’Antico Testamento, è una narrazione così potente in parte perché riconosciamo, in Yahweh, un protagonista che, malgrado la Sua onniscienza, dà voce a emozioni umane tumultuose — amore, certo, e compassione, ma anche collera, intolleranza, disgusto, vendetta, orgoglio, frustrazione, capriccio e parzialità per il Suo popolo eletto a scapito di altri, anche se lo mette alla prova attraverso atroci sofferenze. L’Antico Testamento è, da questo punto di vista, una grande torbida saga familiare, non molto diversa da quelle della tragedia greca o della letteratura russa, o dalla narrativa di Kafka.

È compito del missionario diffondere la buona novella, ed è compito del propagandista modificarla, ma non è questo il compito dell’artista. Come si possono dunque conciliare gli imperativi della vocazione di uno scrittore con la richiesta del Papa di racconti di unità e redenzione? La risposta, ritengo, potrebbe stare nella definizione di mantenere fede.

Un buon cristiano mantiene fede al suo credo; agli insegnamenti della Chiesa; ai dieci comandamenti e all’ideale di perfezionare la propria natura peccatrice, pur con la consapevolezza che la perfezione è un obiettivo inafferrabile.

Anche l’artista mantiene fede all’ideale di perfezione: quella splendente precisione che ci emoziona e ci confonde nelle fughe di Bach, nelle pennellate di Vermeer e nelle frasi di Flaubert. Il processo parte dall’impegno al massimo rigore, e da una pari attenzione alla capacità e alla delusione. Quando un diavolo ti tenta a sospendere la tua mancanza di fiducia in te stesso, devi resistergli. Il cliché è una forma di resa. E lo è anche la sdolcinatezza. Il sentimento autentico non può essere incanalato negli stretti solchi del sentimentalismo.

I santi Agostino, Teresa e Francesco incarnano tutti e tre questa resistenza nei loro scritti. Così come non c’è coraggio senza paura, trascendenza senza umiltà e redenzione senza una onerosa rinuncia — la parola stessa in origine significava “riscatto” — anche il dubbio è essenziale per il lavoro dell’artista

Il lavoro della narrazione esige fedeltà alla parola e, se si è credenti, al Verbo. Esige fedeltà alla verità sulla natura umana, che risiede nei suoi paradossi. Il messaggio del Pontefice mi ha ricordato un dilemma che ho dovuto affrontare più di dieci anni fa, nel recensire il lavoro di Leni Riefenstahl, la fotografa e regista tedesca che esaltò l’ideologia del nazismo. Il “genio” di Riefenstahl non è stato quasi mai messo in discussione, nemmeno da quei critici che disprezzano il servizio al quale lo ha prestato. Però alla fine bisogna domandare se un prodotto creativo conta come opera d’arte, tanto più come una grande opera d’arte, se esclude — come ha fatto il suo — il fatto soverchiante della debolezza umana. Tale fatto è la fonte dell’emozione e della tensione drammatica di ogni narrativa duratura che ci può venire in mente, compresa la Bibbia.

Non c’è nulla di divino in un narratore, se non per un aspetto. Egli ci vede così come siamo. I racconti che ci commuovono, che ci parlano e ci cambiano, ci analizzano in pieno. Per raggiungere tale distacco gli artisti devono però ripudiare orientamenti di parte e idee generalmente accettate. Devono scrivere non tanto su ciò che sanno, quanto su ciò che non sapevano di sapere fino a quando non lo hanno riscattato dall’oscurità. La verità recuperata genera uno choc che non può essere simulato. Nell’opera di un virtuoso, della tecnica come anche del sentimento, lo stupore non si dissipa nemmeno col passare dei secoli.

Lo choc dell’identificazione che ci provoca un testo di grande importanza, quale che sia la sua forma — l’Odissea, le poesie di Emily Dickinson, il racconto popolare africano mantenuto vivo per millenni attraverso la trasmissione orale, o la memoria di un rifugiato contemporaneo — magari non è balsamo sulle nostre ferite, ma conferma la nostra affinità nel dilemma di essere umani.