06 agosto 2020

E Dio creò il tempo (e così il racconto) [di Sergio Valzania]

Dentro le storie degli uomini e delle donne

 

di Sergio Valzania

 

Il primo capitolo del libro della Genesi condensa in 31 versetti i sei giorni della creazione. Il quarto di essi è dedicato agli astri del cielo e la loro funzione è indicata con precisione «siano segni per le feste, per i giorni e per gli anni». È l’informazione più esplicita che abbiamo in relazione alla creazione del tempo, la dimensione che insieme allo spazio ci accompagna per tutta la nostra vita terrena.

Per tre giorni Dio si dedica esplicitamente a organizzare lo spazio, la materia, della quale siamo fatti, la sostanza misteriosa, dalla natura sfuggente delle cui leggi andiamo in cerca con risultati eccelsi e scoperte al limite dell’incredibile. Da pochi decenni sappiamo che il nostro universo è composto solo per il cinque per cento dalla materia e dall’energia che i nostri sensi ci permettono di conoscere, per il resto si tratta di materia ed energia oscura, della cui esistenza siamo informati solo dagli effetti gravitazionali che misuriamo. Senza di essi le galassie non si allontanerebbero l’una dall’altra alla velocità impressionante che misuriamo mentre la forza centrifuga dovuta alla loro rotazione scaglierebbe stelle e pianeti nello spazio profondo.

Il tempo è più discreto nello stupirci, anche se con la definizione della teoria della relatività da parte di Albert Einstein il concetto di prima e dopo si è indebolito di molto e l’illusione di uno scorrere continuo e costante degli eventi è scomparsa.

Eppure abitiamo il tempo quanto lo spazio, e forse le modalità di esistenza di quest’ultimo sono dovute alla sua immersione nel tempo. Senza di esso lo spazio non c’è, non siamo neppure capaci di raffigurarci una realtà che non sia collegata alla dimensione temporale. Anche nel bosco pietrificato della Bella Addormentata «trascorsero giorni, mesi e anni» prima dell’arrivo del principe.

Sappiamo che solo una rappresentazione marcatamente antropomorfa della divinità la pone dentro il tempo: sono gli «dei falsi e bugiardi» a viverci insieme a noi. L’eternità è una condizione altra rispetto a uno scorrere ininterrotto e infinito di anni e di millenni. Il tempo costituisce uno degli architravi della creazione, donato all’uomo insieme all’esistenza, carattere proprio della sua chiamata dal nulla.

È il tempo che rende possibile il racconto, che permette di attribuire un inizio e una fine alle vicende, di vedere al lavoro il principio di causa ed effetto, di credere nel libero arbitrio. Il tempo fa vivere il racconto in due modi distinti e complementari.

Innanzi tutto è al suo interno che si articolano le storie degli uomini e delle donne. Diamo per scontato che le situazioni cambino, si sviluppino, passino da una condizione alla successiva attraverso fasi distinte ma strettamente collegate, che immaginiamo al modo di una sequenza cinematografica impressa sulla pellicola di celluloide ormai in disuso, serie lunghissima di fotogrammi che differiscono di pochissimo l’uno dall’altro. La somma delle piccole differenze, dalla quale non è dato sfuggire, è ciò che ci conduce dalla culla al letto di morte.

La vita che percepiamo come presente si situa in uno solo dei fotogrammi, che subito scompare per lasciare posto al successivo: la catena non si rompe per la nostra capacità di trasformare ciò che ci accade in racconto, così da farne memoria. Anche quando riandiamo al passato attraverso la visione di una sola immagine, fissa, di un accadimento è il ricordo di quanto avveniva attorno a quell’unico scatto superstite che ce ne dà il senso e ci spiega il perché della sua conservazione.

La nostra esistenza psicologica è costituita da un groviglio di racconti dei quali siamo i protagonisti e i custodi, continuamente dediti a una manutenzione e un restauro creativi. Siamo a immagine e somiglianza di Dio anche perché collaboriamo alla creazione di noi stessi, delle nostre identità e memoria.

Il racconto costituisce poi l’unico strumento di comunicazione, di scambio con i nostri simili, che si trovi a nostra disposizione. Ogni bit di informazione che esce o entra nel nostro sistema conoscitivo trova il suo senso solo all’interno di un contesto narrativo, per raccolto e sintetico che esso sia. Per parlare di noi dobbiamo raccontarci e gli altri devono raccontarsi a noi per farsi conoscere.

Tutto questo è possibile perché esiste il tempo, creazione quasi nascosta di Dio: anche il quarto giorno, all’apparenza, sembra destinato ad altre realizzazioni. Se guardiamo bene però scopriamo che l’attività divina ulteriore e parallela alla creazione de «le feste, i giorni e gli anni» consiste in un semplice aggiustamento del sistema di illuminazione già esistente, con la creazione del quale tutto aveva avuto inizio. È come se quello che riguarda il tempo, e quindi la necessità di uno spessore di durata, narrativo, per ogni esperienza umana, sia tenuto in disparte, con discrezione.

Eppure la sua capacità di determinazione dell’esistente è enorme. In presenza del tempo l’accadere prevale sull’essere, o almeno così sembra. Emanuele Severino ha trascorso la vita a riflettere su questo e la fisica contemporanea, come ha ricordato di recente Carlo Rovelli nel fortunato L’ordine del Tempo (Adelphi 2017), si interessa maggiormente dei fenomeni che delle entità, la cui definizione è elusiva, proprio perché, anche se di pochissimo, il tempo passa.

È di grande consolazione sapere che il tempo è un dono e non una condanna. I nostri racconti non sono destinati a scomparire, a perdere di definizione e a cancellarsi come vecchie fotografie. Al contrario hanno una permanenza garantita da Gesù Cristo, che attraverso l’incarnazione visita e divinizza ciò che di per sé sarebbe effimero.

Il mistero centrale della creazione, attuata «per mezzo di Lui», consiste in questa tensione tra ciò che esiste e ciò che diviene, ciò che è per sempre e ciò che sembra affacciarsi appena per un attimo per scomparire subito. Ombra, sogno, apparizione. La fede consiste nell’affidamento, nel dare fiducia, nel tuffarsi, nel ritornare bambini e riguadagnare la capacità di lanciarsi nelle braccia dei genitori, di Dio, che non ci lascerà cadere. Nella convinzione che la confusione e l’ingiustizia che abbiamo davanti agli occhi trovino in lui un senso e una soluzione.

Questo incontro, delicatissimo, con il Creatore si realizza nel tempo, che consente lo sviluppo di un rapporto tra finito e infinito e permette il dispiegarsi delle virtù caritatevoli di Dio, misericordia e pazienza, che compongono la sua giustizia, all’interno della quale non si trova neppure un'ombra dello spirito di vendetta, tristemente caro agli uomini.

Alla radice il racconto non è altro che lo sguardo di Dio sull’uomo attraverso il tempo, come un entomologo che osserva le ali di una farfalla attraverso la lente d’ingrandimento temporale, che è strumento dell’incontro e forse persino, non possiamo saperlo, di qualcosa di simile alla meraviglia di Dio per la sua creatura: il sentimento sorridente del genitore quando vede il bimbo muovere i primi passi o lo sente usare per la prima volta e in modo appropriato una parola di uso non comune.

Anche per questo Papa Francesco ci dice che «Raccontare a Dio la nostra storia non è mai inutile: anche se la cronaca degli eventi rimane invariata, cambiano il senso e la prospettiva. Raccontarsi al Signore è entrare nel suo sguardo di amore compassionevole verso di noi e verso gli altri».

 

(Da L'Osservatore Romano, giovedì 6 agosto  2020)