Discorso del Prefetto Paolo Ruffini per l'assegnazione del Premio Bresson ad Alice Rohrwacher

 

Venezia, 5 settembre 2021

 

Sono felice essere qui oggi, a questa cerimonia di assegnazione del Premio Bresson.

Viviamo un tempo difficile.

Occasioni come questa sono importanti.

Non solo per celebrare una storia, ma per ritrovare in essa le coordinate di un cammino.

A questo servono i premi.

A questo serve il premio Bresson, voluto e custodito come una cosa preziosa dalla Fondazione Ente dello Spettacolo:

-       A riallacciare i fili di tante storie in una unica storia. Che continua. Quella dell’uomo che ricerca se stesso. 

-       A costruire intorno a questa storia un tessuto forte di condivisione con le donne e gli uomini del cinema; che lo lega alla Festa del Cinema di Venezia e a due Dicasteri della Santa Sede: Il Pontificio Consiglio per la Cultura ed il Dicastero della Comunicazione.

-       A cercare insieme la bellezza su strade al di fuori del mainstream.

Per questo quest’ anno il premio va ad Alice Rohrwaker; 

per la straordinaria e dolce potenza dei suoi film, 

per la sua attenzione al mistero della vita e della morte, al senso della vita e della morte;

per la sua capacità di regalarci un modo diverso, inquieto ma non arreso, di vedere le persone e le cose; di stupirsi e di stupire.

 “Lo stupore -ripete spesso Papa Francesco – è una virtù umana che al mercato non si trova più”.

“Subisco molto il fascino dello spazio, la voglia di respirare i luoghi che determinano una storia”, spiega lei stessa.

Ora è vero (come recita la motivazione del premio) che quello dei suoi film è uno spazio che non c’è più. Ma forse c’è ancora se solo sapessimo vederlo.

E’ vero anche che il tempo che essi raccontano non c’è più, c’è sfuggito di mano. Eppure c’è ancora, se solo reimparassimo a prenderlo. 

“Ci avete seppellito, ma non sapevate che eravamo semi”, avverte l’omelia contadina del suo ultimo cortometraggio. Regalandoci una speranza che non è fondata su un ottimismo di maniera, ma sulla capacità di leggere i segni dei tempi e di chiamare a una azione di semina le persone di buona volontà.

In un tempo – il nostro – frantumato sconnesso; dove tutto sembra andare in pezzi; tutto può ancora essere riconnesso. 

Dall’arte però più che dalla politica o dall’economia. 

Perché solo l’arte contempla l’inatteso; vede nelle cose e nelle persone ciò che sono nel profondo; e anche ciò non sono ancora. Come un artigiano, un falegname che – diceva Sant’Agostino - vede nel tronco non tanto quel che è, ma quel che sarà. 

E quando un artigiano modella la sua opera – ha detto Papa Francesco - lo fa integrando testa, cuore e mani secondo un disegno chiaro e definito.

Il cinema ha questo di straordinario: la possibilità offerta al regista di creare, smontare e rimontare frammenti di una storia, di ricucirli con la scrittura, con la musica, con la fotografia, con la recitazione.

Il cinema – cito Alice ora – è un luogo dove convergevano le mie grandi passioni: l’arte, la pittura, la musica; ma anche l’umanesimo, lo stare insieme, la collettività, il costruire… Il cinema ha il fascino di un cantiere medioevale, dove le tante maestranze riunite danno vita ad una cattedrale”.

E dove la cattedrale, aggiungo io, è (come il cinema) il luogo dove si cerca di ricomporre l’unità perduta rimpianta in una bellissima lamentazione di Gregorio di Narek poeta e monaco cristiano vissuto a cavalo dell’ano 1000:

“Potrò mai di nuovo contemplare l’arca del mio corpo ridotto a pezzi, rifatta? Mi sarà mai dato modo di vedere integra la nave rovinata della mia misera anima? Mi sarà mai dato di vedere ricomposti i brandelli divisi da enormi distanze? ... Mi vedrò forse ricomposto come un vaso, il frantumato che sono in diecimila pezzi?

Anche oggi, come allora, quello che viviamo ci pare il peggiore di tutti i tempi. Ma forse potremmo ancora descriverlo, come fece Dickens, anche il migliore di tutti i tempi: il secolo della saggezza e della stoltezza, stagione della Luce e delle tenebre, primavera della speranza, e inverno della disperazione: abbiamo tutto dinanzi a noi, e non abbiamo nulla, andiamo dritti diritti verso Cielo, e pure dalla parte opposta. (Cfr. Charles Dickens, Le due città).

Di questo ci parlano i film di Alice Rohrwaker. Del nostro tempo.

Del genocidio culturale – come ha detto lei stessa – operato da certa tv. E della possibilità al tempo stesso di svelare sia la parte buona oltre a quella cattiva della cultura Pop.

Sta a noi alla fine saper vedere. 

Parafrasando Ippocrate, Ermanno Olmi disse che in troppi vediamo, pochi sappiamo.

Il punto è che per sapere occorre un modo diverso di vedere le cose.

Un modo che – spiegò, in una delle sue ultime interviste, citando Tolstoj – forse solo i bambini sanno pienamente:

“Per Tolstoj c’erano solo due modi per arrivare alla verità: o l'arte più alta del pensiero, o l'innocenza dei bambini. Sa cosa diceva? "Io sfido i più grandi scrittori a scrivere come scrivono i bambini". E, badate bene, lo diceva da scrittore. Come Picasso, il cui più grande desiderio era quello di disegnare come i bambini. Tolstoj e Picasso, due ribelli".

Anche Papa Francesco ha sottolineato più volte l’importanza di questo sguardo bambino.

Lo ha fatto citando una poesia di Hölderlin, dedicata alla nonna, che si chiude con il verso Che l’uomo mantenga quel che il fanciullo ha promesso.

Lo ha fato citando il film di De Sica, I bambini ci guardano.

Lo sguardo – ha detto - … è capace di vedere le cose e di vedere dentro le cose. Lo sguardo provoca anche le coscienze a un attento esame. Lasciamoci interrogare: come è il nostro sguardo? È uno sguardo attento e vicino, non addormentato? È uno sguardo d’insieme e di unità? E’ uno sguardo che suscita emozioni? È uno sguardo che comunica comunione e creatività? Lo sguardo comunica e non tradisce. Lo sguardo sta a fondamento della costruzione delle comunità”. 

Così, nella sua recente intervista a don Dario Viganò sul neo realismo italiano, ha ricordato le parole di Hieronymos, arcivescovo ortodosso di Atene e di tutta la Grecia, a proposito di una delle realtà più dure del nostro tempo: «Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la “bancarotta” dell’umanità» (Discorso nel Campo profughi di Moria, Lesbos, 16 aprile 2016). Essere guardati dagli occhi dei bambini è un’esperienza che tutti conosciamo, che ci tocca fino in fondo al cuore e che ci obbliga anche a un esame di coscienza”.

Ecco, a me pare che il suo sguardo sia il segreto di Alice Rohrwaker: la capacità di guardare con verità, in profondità, di “guardare con innocenza”, lo sguardo puro che vede l’essenziale oltre l’apparenza; l’unità al di là della divisione; lo spirituale al di là del materiale; in una visione della vita che rimane fondamentalmente laica ma che contempla – come dice lei stessa – la dimensione spirituale, la possibilità di portare anche attraverso un film una luce dentro una caverna. 

In una sua intervista, Alice ha detto: amo i film che in qualche modo lavano i miei occhi, rinnovano il mio guardare. E siccome noi siamo quello mangiamo, non solo in senso materialistico…ogni visione diventa memoria”.

Ora io non so se interpreto bene, e certo so che ogni interpretazione è alla fine frutto di una esperienza personale, ma in questo lavare gli occhi, rinnovare il guardare, scardinare l’apparenza, l’ovvio, il banale c’è il fulcro dell’immaginazione cinematografica che oggi viene premiata nelle opere di Alice Rohrwaker proprio perché capace di restituire un senso al racconto, e una prospettiva diversa (di bellezza, di luce) anche alle crepe del tempo.

Anche in questo caso a me pare evidente il filo che lega il cammino di Alice con quello di Olmi reso evidente dalla volontà (esplicita in Omelia contadina) di dare una dimensione di azione anche al cinema. 

Si tratta di una scelta di campo umana e artistica allo stesso tempo, etica ed estetica. Realistica e utopica, Dove la diversità è ricchezza, l’altro non è mai un nemico e anche la sofferenza può essere trasfigurata in speranza di cambiamento se viene prima condivisa, poi capita e infine narrata.

In questo modo il cinema riscatta lo sguardo dalla passività del nostro tempo, può cambiare sia chi guarda che chi è guardato; avvia cammini nuovi senza essere smemorato, ricostruisce una memoria collettiva, ritesse il tessuto sociale, sa rivelare – come ha detto Papa Francesco parlando dei film che hanno segnato la sua vita - la singolarità dell’essere umano, la sua interiorità e intenzionalità”. 

I film di Alice Rohwarker mostrano in questo una straordinaria sintonia con quanto ha scritto Papa Francesco nella sua Enciclica Laudato si’: sulla necessità di una ecologia integrale dell’uomo, della storia e della terra, che soffre a causa dell’uso irresponsabile, dell’abuso, del saccheggio dei suoi beni.

Ci raccontano una storia diversa. Una possibilità diversa. Una visione diversa.

Come ha scritto Papa Francesco nel suo penultimo messaggio per le comunicazioni sociali: “L’uomo è un essere narrante. Fin da piccoli abbiamo fame di storie come abbiamo fame di cibo. Che siano in forma di fiabe, di romanzi, di film, di canzoni, di notizie…, le storie influenzano la nostra vita, anche se non ne siamo consapevoli. Spesso decidiamo che cosa sia giusto o sbagliato in base ai personaggi e alle storie che abbiamo assimilato. I racconti ci segnano, plasmano le nostre convinzioni e i nostri comportamenti, possono aiutarci a capire e a dire chi siamo.

L’uomo non è solo l’unico essere che bisogno di vestirsi; l’uomo ha bisogno anche di raccontarsi, di “rivestirsi” di storie per custodire la propria vita. Non tessiamo solo abiti, ma anche racconti: infatti, la capacità umana di “tessere” conduce sia ai tessuti, sia ai testi. Le storie di ogni tempo hanno un “telaio” comune: la struttura prevede degli “eroi”, anche quotidiani, che per inseguire un sogno affrontano situazioni difficili, combattono il male sospinti da una forza che li rende coraggiosi, quella dell’amore. Immergendoci nelle storie, possiamo ritrovare motivazioni eroiche per affrontare le sfide della vita. 

on siamo nati compiuti, ma abbiamo bisogno di essere costantemente “tessuti” e “ricamati”. La vita ci è stata donata come invito a continuare a tessere quella “meraviglia stupenda” che siamo”.

Per questo premiandola possiamo dir grazie ad Alice Rohrwaker per il suo saper vedere, aprire e aprirci gli occhi; seminare, tessere, far vivere racconti che tessono questa stupenda meraviglia.

Così che con lei possiamo ripetere oggi: Ci avete seppellito ma non sapevate che eravamo semi.