Lettera a Raimondo Manzini, presidente UCSI

Segreteria di Stato, 4 novembre 1968

 

[...] Egli desidera approfittare della presente gradita circostanza per ribadire alcuni principi morali, che di un codice di deontologia professionale del giornalista rappresentano la base necessaria e l'imprescindibile criterio ispiratore.

Anzitutto, il rispetto della verità, poiché solo a questa condizione la stampa d'informazione adempie la sua intrinseca ed indispensabile funzione di servizio al bene comune. Nella diffusione e nel commento delle notizie l'obiettiva rispondenza con quanto è realmente accaduto deve prevalere su ogni altro interesse. L'obbligo di cercare la verità è assai gravoso talvolta; ma il giornalista serio ed onesto, e libero – come dev'essere – da pressioni politiche ed economiche, non che da passioni e pregiudizi personali, lo compie volentieri, sfuggendo alla tentazione sia di gonfiare e di abbellire le informazioni, se non addirittura di inventarle, sia di fermarsi ai loro aspetti sensazionali e superficiali. Il rispetto della verità domanda ancora al giornalista di non essere parziale o approssimativo, di non tacere ciò che è essenziale alla retta comprensione del significato di una notizia, di non essere tendenzioso, presentando la notizia in modo da sviare chi legge. E il rispetto della verità esige, infine, di rettificare una notizia falsa: obbligo, questo, moralmente grave, quando con la falsificazione di una informazione si sia recato grave danno alla fama e all'onorabilità del prossimo. Né il fatto che questi sia un «avversario» sul piano ideologico o politico può mai giustificare l'uso della parzialità, della tendenziosità, della menzogna nei suoi riguardi. Il rispetto della verità non può, d'altra parte, andare disgiunto dal rispetto delle persone e dei diritti personali. Qualora, perciò, la diffusione di una notizia, anche vera, ma attinente alla vita privata di una persona, è tale, comunque, da non incidere sulla sua attività pubblica, nuocesse al diritto che ognuno ha di conservare integro il proprio buon nome, corre l'obbligo morale di non propalarla. Donde si vede come la diffusione della verità deve avere riguardo al rispetto della persona umana.

II secondo principio a cui un codice di deontologia giornalistica deve ispirarsi è il rispetto dei supremi valori spirituali e morali della vita individuale e associata, come sono, ad esempio, la religione, la libertà, la giustizia, la pace, la solidarietà e la carità tra tutti gli uomini, l'amor di patria, la cultura, l'onestà e la probità dei costumi. Tali valori costituiscono la vera ricchezza di un popolo. È perciò dovere di tutti adoperarsi perché essi non solo non vadano perduti né siano messi in pericolo, ma siano gelosamente difesi e accresciuti. Ora, è certo che il giornale può fare moltissimo, sia per proteggere ed incrementare detto patrimonio, come anche, purtroppo, per minarlo e distruggerlo. Di qui la grande responsabilità che grava sui giornalisti, i quali hanno il dovere di valutare l'effetto, benefico o dannoso, che ha sull'animo dei lettori quanto essi scrivono: tanto più che il giornale non si rivolge a categorie specializzate o particolarmente formate, ma al grosso pubblico, fatto di persone in gran parte semplici e facilmente influenzabili, ed anche di fanciulli e di giovani. A questo proposito, il Santo Padre non può non deplorare il rilievo che alcuni organi di stampa, per altro seri e qualificati, danno ai delitti, specialmente ai delitti contro la vita e contro la pubblica moralità, abbandonandosi a descrizioni minute e a ricostruzioni particolareggiate, col risultato di sollecitare gli istinti più bassi dell'uomo e di divenire una scuola del male. È auspicabile che in un eventuale codice di deontologia giornalistica questo punto sia tenuto nel debito conto, e che tutti gli editori e direttori di giornali, mediante un opportuno accordo, si impegnino a non dare uno sproporzionato rilievo a tali brutture della vita sociale: qualora, poi, non si potesse fare a meno di parlarne, si dovrebbero suggerire ai lettori elementi e criteri per una retta valutazione etica.

È ovvio che con queste ed altre restrizioni richieste alla stampa non si offende la libertà di pensiero e di espressione. Come tutte le altre libertà, anche la libertà di stampa non è assoluta: essa ha dei limiti intrinseci alla sua stessa funzione, oltrepassando i quali degenera in licenza «La libertà di cui voi rivendicate a buon diritto l'esercizio – diceva il Santo Padre ai giornalisti in altra occasione – non deve mai andare contro i diritti della verità e contro le esigenze del bene comune. Si tratta di un mezzo utilizzato in vista di un fine: il migliore servizio delle persone e delle comunità»1.

Posto non piccolo tra le vivissime sollecitudini pastorali del Sommo Pontefice occupa il problema della stampa cattolica: «Grande problema, sempre ricorrente, sempre di attualità, sempre gravato da enormi e crescenti difficoltà come da enormi e crescenti doveri»2.

Il maggior ostacolo che la fede incontra oggi nel mondo è la diffusa mentalità materialistica, edonistica, positivistica, alla cui creazione contribuisce, purtroppo, assai spesso, la stampa quotidiana e periodica. Ora, il deleterio influsso delle pubblicazioni indifferenti, se non pure ostili, ai problemi religiosi e morali, può essere combattuto efficacemente dalla stampa cattolica, con il suo duplice compito: di liberare le menti da errori, pregiudizi e modi di vedere contrari ai sani principi morali e religiosi, preparando e spianando così la via all'annunzio evangelico; e di proporre il messaggio cristiano, interpretando in pari tempo alla sua luce avvenimenti della storia e fatti della vita.

Il Santo Padre sa con quanti sacrifici e con quanto zelo apostolico molti cattolici italiani si dedicano a tale missione; e mentre paternamente incoraggia i loro lodevoli sforzi, chiede che tutti i fedeli sostengano, leggano e diffondano la stampa cattolica, nel fermo convincimento che essa è un mezzo indispensabile per una formazione della mentalità cristiana propria ed altrui.

Nel campo della stampa cattolica, una funzione importantissima svolgono i settimanali locali, sia per la loro natura popolare, sia per la capillarità della loro diffusione. Il Santo Padre, che già altra volta ho sottolineato «la necessità di valorizzare sempre più questa rinnovata formula giornalistica, la quale ormai è da considerarsi come uno strumento insostituibile di pastorale diocesana viva ed efficace»3, desidera ripetere ora il suo apprezzamento per il lavoro compiuto in detto settore.

Ma il problema pastorale e apostolico della stampa è più vasto di quello della stampa specificamente cattolica. Di qui la necessità che negli organi di stampa non dichiaratamente cattolici, ma rispettosi dei principi e dei valori cristiani, siano presenti numerosi giornalisti e pubblicisti cattolici, valorosi e preparati: capaci di fare non solo del buon giornalismo, ma anche di offrire ai lettori una visione delle cose, e in particolare della vita della Chiesa, non superficiale ed esteriore, ma vera e profonda, in modo che l'opinione pubblica possa comprendere la Chiesa e la sua azione nel mondo nella sua dimensione più intima, che è quella spirituale e trascendente.

Sua Santità, che segue sempre con vivo interesse l'attività della Unione Cattolica della Stampa Italiana, si augura che l'Unione stessa, anche in conformità con i suoi scopi statutari, voglia particolarmente impegnarsi nella formazione spirituale e professionale di valenti giornalisti cattolici, i quali contribuiscano alla elevazione culturale, morale e religiosa della stampa italiana. È perciò desiderio dell'Augusto Pontefice che l'Unione, convenientemente articolata nelle sue varie sezioni e commissioni, perfezioni le proprie strutture ed accresca la propria attività a beneficio degli iscritti come di tutta la categoria giornalistica italiana, di cui vuol essere parte viva e operosa.

 

1 Paolo VI, Discorso «Nous sommes très honoré» (1965).

2 Paolo VI, Discorso «Festeggiamo insieme» (1966).

3 Segreteria di Stato, Lettera a mons. Gobbi, presidente della Federazione Italiana Settimanali Cattolici (1968).

 

FonteL'Osservatore Romano, 8 novembre 1968.