07 maggio 2020

La vita si fa storia (di Mariapia Veladiano)

Racconto - La parola dell'anno

 

di Mariapia Veladiano

 

Nel miracolo delle narrazioni


Il gesuita Silvano Fausti, teologo libero e fedelissimo, studioso appassionato della Sacra scrittura, esegeta e maestro della Lectio del martedì a Milano, dove ha accompagnato generazioni di ragazzi a servire la Parola, era un lettore di narrativa appassionato e diceva che un buon romanzo lo si riconosce quando il lettore può trovare parte di se stesso in ogni personaggio della storia.

Leggendo I promessi sposi, diceva, ciascuno di noi può riconoscere come propria la pusillanimità di don Abbondio, l’irruenza di Renzo, la prepotenza di don Rodrigo, la carità pelosa di donna Prassede, e anche la generosità di fra Cristoforo, la fede santa del cardinal Federigo. È questa la potenza buona della narrazione, il fatto che ci permette di non sentirci estranei a nessuna passione, a nessun movimento dello spirito, nemmeno a quelli estremi, che ci viene di chiamare disumani e sbagliamo, oppure che sentiamo inarrivabili e sbagliamo.

Anche se non diventeremo il cardinale Federigo, nel leggere di lui sentiamo che essere buoni è una possibilità della nostra umanità, e questo educa le nostre emozioni, ci tiene lontani dal cinismo, o anche solo dalla sfiducia. È una vera educazione emotiva. Possiamo sentirci fratelli di ogni umanità e l’altro non potrà mai più essere così diverso da noi da poter diventare nostro nemico.

C’è più teologia, intesa come riflessione sull’esperienza religiosa degli uomini e delle donne, nei libri di letteratura che nei trattati, perché la teologia della letteratura assume tutta intera l’interrogazione della vita sui temi del bene, del male, del senso e della promessa, ma nello stesso tempo non ha la pretesa di chiudere il cerchio con la risposta. Lascia il cerchio aperto, come aperta sempre è la vita delle persone, la cui domanda di felicità ha risposte infinite, tante quante sono le persone e le storie.

Non c’è trattato capace di far cambiare le nostre vite. Non c’è statistica. Non c’è sapere. Sappiamo che le persone muoiono a un passo da noi per la nostra incapacità di prendere decisioni umanamente necessarie davanti a problemi complessi. Eppure riusciamo a fare come se non sapessimo e a vivere vite ciecamente normali. Sappiamo che non c’è invasione di stranieri in Italia e che la percezione è lontanissima dalla realtà. Sappiamo che gli unici delitti ad aumentare sono quelli domestici e contro le donne. Ma le nostre convinzioni non cambiano. E pensiamo di essere invasi e diamo la nostra preferenza politica a chi sistematicamente edifica la paura verso lo straniero invece di operare con passione e lungimiranza a sciogliere l’aggressività e la paura che ci circondano. Ad aiutarci, noi cittadini, a vivere in pace nell’unico mondo che abbiamo.

Non si nasce così. I bambini si riconoscono spontaneamente simili, amici, finché le paure e i pregiudizi degli adulti non li allontanano. Toni Morrison ha costruito tutta una vita di narratrice intorno alla domanda fondamentale: che cosa spinge molti Paesi a costruire la propria azione politica sulla pelle dell’altro. Sulla «alterizzazione», così la chiama. A creare cioè una linea divisoria strumentale all’interno dell’unica specie umana. Lei risponde così: «La spinta a sfruttare un bisogno fondamentale dell’uomo, che è il bisogno di appartenenza a qualcosa di più grande del proprio sé individuale, e dunque di più forte» (L’origine degli altri, Frassinelli 2018).

Perché? Perché se l’altro mi somiglia posso simpatizzare e perdermi in lui e rischio così di perdere la mia identità e divento debole, più debole, non sono speciale, non sono Dio. Di questa debolezza ho paura. Per cui, per conservare questa identità che mi rappresento come forza, allontano l’estraneo, attraverso un processo di alterizzazione che spesso diventa deumanizzazione, e nello stesso tempo mi identifico esclusivamente e fortissimamente con quelli come me, che nel diventare gruppo super identitario ben distinto dall’altro, si sentono fortissimi.

E allora come si fa? Toni Morrison ha scritto romanzi in cui la rappresentazione di questi sentimenti fondamentali, debolezza, paura, sopraffazione, vigliaccheria, grandezza, sono così nostri che si esce cambiati. Nessun giudizio possibile per i personaggi di Amatissima, in cui ogni cosa tremenda viene compiuta. Da un lato scatta in noi la sospensione del giudizio e dall’altro possiamo riconoscere la complessità del male, che spesso è male generato e a sua volta generato. Una catena, e raccontare la sua storia ci aiuta a riconoscere i meccanismi umanissimi, comuni, carsici che lo generano. A non dargli principio con le nostre azioni. È questo il miracolo delle narrazioni. Possiamo sospendere il giudizio sull’altro perché sappiamo di essere come lui. Che potremmo agire come lui.

Ma le storie ci permettono anche di vedere il nostro male. Il re Davide sa bene di compiere il male quando non solo giace con Betsabea, la moglie del suo fedele comandante Uria, assente perché combatte per lui contro gli Ammoniti, ma addirittura ordina che venga mandato a combattere in prima fila e in luogo esposto affinché muoia e lui possa nascondere il suo peccato. Sa che è male ma il suo conoscere le leggi del Signore non lo salva. Lo salva la narrazione del profeta Natan che gli racconta una storia di sopraffazione in cui il re Davide si può riconoscere e così il suo senso di giustizia si risveglia. Lascia il delirio di essere assoluto, sovrano che tutto può, e riconosce l’appartenenza a una storia in cui ha per compagno fedele il Signore.

Qui c’è il potere buono delle storie belle. Ogni storia “bella” vive di una propria felicità interna che è la fedeltà alla vita così com’è, vera e non filtrata attraverso gli occhi dell’ideologia o della morale. La bella narrazione non ha regole fuori da sé, non ha padroni. Non c’è niente di più fastidioso, meno efficace, più intollerabile e infine più “brutto” della narrazione che intende essere edificante. Così come è terrificante e dannosa la narrazione che intende ostentare il male, un ostentare che diventa un ottundimento della capacità empatica ed emotiva, un narrare ammiccante, seduttivo nei confronti del nostro sentimento di potenza. Ma se esiste il piacere della sopraffazione esiste anche quello della buona azione, del bene fatto che ripara il mondo.

Il narrare bello chiede solo la fedeltà alla vita. La bellezza e la verità di Cappuccetto Rosso non sono la moralistica raccomandazione di non disubbidire ai genitori. La favola piace follemente ai bambini perché racconta che anche da piccoli si può essere liberi (di disobbedire), che i boschi pericolosi vanno attraversati, che il pericolo esiste e può essere mortale, che i lupi seguono la loro natura, che anche i grandi come la nonna e non solo i bambini come Cappuccetto Rosso possono essere ingannati, che infine se vegliamo gli uni sugli altri i pericoli possono essere superati.

Lo stralisco è il titolo di una splendida storia per bambini scritta da Roberto Piumini (Einaudi Ragazzi 2001). C’è in un luogo dalle parti della Turchia un bambino malato di nome Madurer che deve vivere chiuso in un palazzo e lontano dal mondo. Il padre è il burban Ganuan, un uomo ricco e potente che lo adora e un giorno manda a chiedere un favore a un pittore di nome Sakumat. Il pittore dipingeva paesaggi così belli che, se fossero stati veri, sarebbe stato «un buon creatore». Gli chiede il favore (nulla viene imposto in questa narrazione, tutto è libero dono) di dipingere per il bambino le stanze dentro le quali lui deve rimanere per non peggiorare la malattia.

Il pittore va e dipinge le immense pareti delle stanze di Madurer. Il bambino racconta, racconta e aggiusta progressivamente il racconto, a seconda di come la vita delle persone e dei paesaggi raccontati si evolve, con la luce, con il desiderio interno dei personaggi. E Sakumat dipinge. Insieme costruiscono «il paesaggio del mondo». Madurer è malato, sempre di più, ma si prendono il tempo di lavorare con calma: «Abbiamo tutto il tempo, tutto il tempo che ci è dato, l’abbiamo». Nel tempo si scambiano le abilità. Appartenenza reciproca. Madurer impara un poco a dipingere e aggiunge piccolissimi fiori e farfalle alla pittura del maestro e amico Sakumat. Un giorno Madurer gli parla dello stralisco, un grano che nessuno conosce, una pianta dalle spighe luminose che splendono nelle notti serene. Una «pianta-lucciola». Il racconto di Madurer diventa storia sui muri dipinti e in una notte serena anche lo stralisco compare, creato dal pennello di Sakumat. Tutta la felicità possibile viene vissuta nel tempo che è dato.

Poi Madurer muore, certo. Sempre si muore. Tutti. Ma intanto lo stralisco è stato creato, la promessa ci è stata consegnata, la storia è stata vissuta. La nostra storia.

 

(Da L'Osservatore Romano, giovedì 7 maggio 2020)