14 febbraio 2020

Raccontare storie ci salva: diritto alla parola profonda

Anche il Papa ha sottolineato questo aspetto nel Messaggio per la 54a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali

 

di Chiara Giaccardi - Avvenire

 

«L’uomo è un animale che racconta storie», scriveva Alasdair McIntyre in Dopo la virtù. La stessa domanda "chi sono" si può anche tradurre così: "di quale storia sono parte? Quale voglio che sia la mia storia?".

Le storie possono aiutarci a capire e a dire chi siamo, scrive Papa Francesco nel Messaggio per la 54a Giornata mondiale per le comunicazioni sociali. Cioè a dare un senso ai frammenti della nostra esistenza, per renderli passi di un cammino unitario.

Hannah Arendt scriveva che «il racconto rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi»; senza però cercare di catturarlo nella trappola della spiegazione, nella catena dei rapporti causa-effetto. Perché nel racconto c’è sempre una genialità creativa, un incontro con l’inatteso. Il racconto, poi, è per tutti. «Nessuna vita è così insignificante da non poter essere raccontata», scriveva ancora Arendt.

Di più: ogni vita è una storia sacra, secondo il teologo gesuita Christofer Theobald, esponente di spicco della teologia narrativa. Raccontare dà senso – che è insieme significato e direzione – alla nostra vita. È anche una via che aiuta a elaborare, e poi magari a lasciar andare un passato che potrebbe schiacciarci, mantenendo però il suo insegnamento nella memoria.

Karen Blixen scriveva che «tutti i dolori possono essere sopportati se vengono messi in un racconto, o se si narra, su di essi, un racconto».

Per questo non poter raccontare la propria storia, il proprio trauma è fonte di una tossicità che avvelena la persona e la spegne. Ne parlava Walter Benjamin a proposito del "silenzio del reduce". Nessuno vuole ascoltare storie di guerra quando tutto è passato, e così chi ha rischiato la vita, visto morire amici, eseguito ordini in contrasto con la propria coscienza si trova privo di orecchie che vogliano ascoltare, incapace di dare un senso alla propria esperienza attraverso un racconto condiviso.

Lo stesso accade per i reduci della Shoah, o per i migranti che hanno sentito la morte vicinissima. Quelle storie che nessuno vuole ascoltare. Non c’è agonia più grande che tenere una storia non raccontata dentro di sé, scriveva Maya Angelou. Anche in condizioni non traumatiche raccontare è cruciale. Lo dimostra l’ansia delle giovani generazioni (e non solo) di raccontarsi sui social.

Siamo le storie che abbiamo ricevuto, che ci hanno dischiuso orizzonti, che un po’ alla volta impariamo a scrivere con la nostra stessa vita e a trasmettere ad altri. Perché l’essere umano non è un individuo compiuto e autosufficiente bensì, come scrive Papa Francesco, un essere in divenire, che si scopre e si arricchisce nelle trame dei suoi giorni.

E le trame sono sempre incontri, incroci, legami che danno spessore e sapore alla nostra vita. Che ci aiutano a diventare chi siamo, a lasciare qualcosa di noi nel mondo. A prendere forma mentre diamo forma. A tessere fratellanza.

Attorno a ogni storia si raduna una compagnia: sempre si racconta di qualcuno, per qualcuno, a qualcuno. Per questo i bambini, che hanno sete di mondo e di compagnia, sono affascinati da chi sa raccontare storie, e non sono mai sazi: "ancora una!".

Come scrive in un bellissimo libro, Generare è narrare, Jean Pierre Sonnet, i bambini hanno bisogno di ascoltare dai genitori una storia iniziata prima di loro. Per non sentirsi spaesati, per collocarsi in un mondo più grande di quello che vedono; un mondo che ha un prima e un dopo, che darà senso al loro esserci, che renderà la loro storia l’anello di una catena più lunga e senza fine. È il racconto che ci insegna a vivere.

Il racconto è una casa ospitale: fa posto a tutte le generazioni. In fondo la narrazione è sempre polifonica, perché intreccia le voci e le vicende di tanti, e anche "policronica", perché abbraccia presente passato e futuro, biografie personali e storia collettiva. Le storie parlano del passato ma sono spalancate sul futuro. Per questo non passano. Noi moderni invece rischiamo di rimanere intrappolati nel presente.

Per Walter Benjamin, che scriveva nelle prime decadi del novecento, «l’arte di narrare giunge al tramonto», incalzata dalla velocità di una informazione frammentata che ci disorienta. E questo porta a un declino di civiltà. Nella società dell’informazione si rischia di diventare grandi consumatori di notizie, ma incapaci di raccontare. L’informazione ha valore solo nell’attimo in cui è nuova. La narrazione invece non si consuma: il suo valore dura e a volte cresce nel tempo. E il tempo stesso diventa umano nella misura in cui è articolato in modo narrativo, ci ricorda Paul Ricoeur.

Ancora Arendt scriveva che è la possibilità di essere narrato che consente all’essere umano di afferrare se stesso sia come "unicità", singolarità irripetibile, sia come "unità": delle diverse dimensioni che ci costituiscono, della nostra biografia, del nostro destino. Raccontare è ricucire le diverse dimensioni di sé, ma anche intrecciare la propria biografia personale con la storia, quella con la S maiuscola. Perché l’unicità non è separazione autoreferenziale, individualismo esasperato, bensì partecipazione a un tutto che è variegato, plurale, collettivo.

Raccontare è dare senso a ciò che accade, legando singolare e universale: per comprendere, valutare, agire. Per non smarrirci, scrive Papa Francesco. Un modo concreto, plastico, in cui ciò che ha valore universale diventa vero per ciascuno attraverso immagini legate alla vita, che aiutano a leggerla in una prospettiva più ampia. Come le parabole del Vangelo, racconti per immagini capaci di mostrare l’intima unità tra vita quotidiana e vita eterna, semplicità e grandezza, corpo e spirito; dove la vita si fa storia e la storia si fa vita, e dove la narrazione entra nella vita di chi ascolta e la trasforma.

Nell’era del pensiero astratto e impersonale raccontare è un parlare incarnato nelle relazioni e nei contesti. Ogni storia riconosce un legame e lo rinsalda.

In questo senso, per riprendere il titolo geniale di un libro Alessandro d’Avenia, ogni storia è una storia d’amore. La "buona novella" del Vangelo altro non è che la storia di Gesù che tesse legami spaziali camminando sulle strade della Palestina e incontra persone, le più disparate, toccando il loro cuore e trasformandolo per sempre. E poi compie il gesto d’amore più grande: dare la sua vita perché anche noi possiamo averne in abbondanza. Le storie vere rigenerano, rimettono al mondo. E la storia della salvezza, che è la storia d’amore per eccellenza, ci invita ad affidarci a una relazione di amore che ci trasforma dal di dentro (piuttosto che a conformarci a precetti esteriori, che facilmente degradano in pratiche sociali e formalismi). Un legame (fides, corda, affidamento) che ci fa rinascere interi, che ci fa vivere nell’ampiezza. Una storia che ci rinnova.

Non tutte le storie sono buone, ci ricorda però Papa Francesco. Ci sono anche le storie di odio, che tramandano divisioni, ostilità, inimicizia tra le generazioni nel tempo. Come le faide, veri racconti di odio dove la memoria è conservata per portare morte e scavare divisioni sempre più profonde.

A questo proposito mi piace concludere con una piccola storia. In un paesino della Sardegna, per nulla estraneo a questi racconti di inimicizie e vendette, il sindaco chiede a un’artista locale di ideare un monumento ai caduti. La donna, che si chiama Maria Lai, accetta a condizione di trasformarlo in un monumento ai vivi. E partendo da un’antica leggenda popolare, secondo la quale una bambina si era salvata da una frana staccatasi dalla montagna dopo una tempesta rincorrendo un nastro turchino che fluttuava nell’aria (perché ogni storia nasce sempre su altre storie) propone un gesto sovversivo: legare, insieme agli abitanti, tutte le case del paese con un nastro azzurro, insistendo con nodi e fiocchi proprio dove il rancore era più forte, e appendendo pani di comunione a questi intrecci; e poi, sempre con la partecipazione di tutta la comunità, legare il tutto alla montagna, fonte di protezione e insieme minaccia. Raccontare è questo gesto che lega laddove ci sono divisioni, e che ci aiuta a non perdere il filo nelle tante lacerazioni dell’oggi.

 

(Questo articolo è stato pubblicato su Avvenire venerdì 7 febbraio 2020)