09 luglio 2020

Una persona affollata di gente (di Enrico Zarpellon)

Racconto - La parola dell'anno

 

di Enrico Zarpellon

 

Sono affamato di storie capaci di restituirci la bellezza e la complessità di essere vivi, e il messaggio di Papa Francesco per la Giornata delle comunicazioni sociali giunge con la forza di un amico che mi conosce e sa mostrarmi ciò che vivo quando ascolto e leggo un racconto. Accade di sperimentare come una buona storia funzioni contemporaneamente da mappa e da antenna: a patto di conoscerla, sai sempre trovare la strada. Spesso si tratta di una strada verso la profondità di ciò che significa essere umani in modo pieno e consapevole, e il racconto diventa una chiave per aprirsi dall’interno, capace di «aiutarci a capire e a dire chi siamo». Affinché ciò accada sottostiamo a un meraviglioso vincolo: non essere da soli.

Per raccontare bisogna essere in due

Un racconto non esiste senza chi lo fa e chi lo riceve. Ogni racconto presuppone, suscita e amplifica un tu fondamentale, un’alterità che, come nell’esperienza di fede, ci concede lo spazio per esercitare la libertà di credere o meno a una storia. Lo ricordava anche Eudora Welty: «Ogni autore ci permette di credere: non ce lo chiede, non ci obbliga a farlo, ci lascia semplicemente liberi». Che si riceva o si generi un racconto occorre essere in due, ed è un elemento che conserva un’intatta meraviglia se pensiamo a quanto spesso tale condizione venga meno in tante delle narrazioni che produciamo. C’è una pervasiva modalità del racconto di sé (ad esempio attraverso i social network) che nega lo statuto di questo rapporto fra alterità: nella bolla social il mio racconto tenderà a perseguire un riconoscimento autocompiaciuto e controllato narcisisticamente, che rifiuta la libertà di un ascolto vero e altro; e anche nel ricevere il racconto di sé che altri, talvolta compulsivamente, compongono, rischierò di restare nella palude di chi si divora in continuazione, preda di un eterno riconoscimento che appaga ma toglie il fiato.

L’esito, ricorda il Santo Padre nel suo messaggio, sono «storie che ci narcotizzano», e «non ci accorgiamo di quanto diventiamo avidi di chiacchiere e di pettegolezzi». Rispetto a ciò un elemento significativo è quello della corporeità, che porta in sé l’istanza fondamentale dell’intimità che si crea in una storia; quella relazione di fiducia che sola può dare vita a un racconto buono, bello, vero. Il tempo nuovo e dilatato in cui si ascolta o si racconta una storia è tempo della fiducia che riponiamo anzitutto in una voce, ovvero in un volto. E un racconto «nutre la vita» se non dimentichiamo che dietro e dentro al racconto c’è sempre una persona, con il suo desiderio di relazione e di vita: è grazie a questo desiderio che un buon racconto combatte la morte. Potremmo rievocare la storia dei discepoli di Emmaus, ricca di narrazioni che si incrociano. I due, sconsolati e con la morte nel cuore, mentre raccontano allo sconosciuto che cammina con loro gli eventi accaduti a Gerusalemme raccontano di sé. Ma ecco che Gesù ripercorre la Sacra Scrittura fissando «nella memoria gli episodi più significativi di questa Storia di storie, quelli capaci di comunicare il senso di ciò che è accaduto», come scrive il Pontefice.

Il racconto di Gesù converte quello dei discepoli, che dopo averlo riconosciuto tornano a Gerusalemme con una narrazione rinnovata: davvero «attraverso il suo narrare Dio chiama alla vita».

Vale la pena evidenziare che Gesù inizia il suo racconto ascoltando quello dei discepoli. Egli, grande narratore, ci insegna che curare il racconto che facciamo è sempre, al tempo stesso, curare la qualità del nostro ascolto dei racconti altrui. Una buona storia esiste anche grazie a chi la riceve. E se nessuno è così povero da non avere una storia da raccontare, troppe persone sperimentano una povertà radicale: manca chi ascolti il loro racconto.

«Quando so che qualcuno sta ascoltando…»

Nel romanzo Erano solo ragazzi in cammino Dave Eggers ha raccontato la storia vera di Valentino Achak Deng: bambino nel Sudan travolto dalla guerra civile, fugge insieme a migliaia di altri orfani verso l’Etiopia. Un esodo infernale a cui seguono gli anni nel campo profughi, tra moltissime privazioni ma ritrovando relazioni, scuola, un barlume di umanità. Grazie a un programma Onu per rifugiati, Valentino vivrà negli Stati Uniti, in un sogno presto disilluso. Il romanzo è costellato di passaggi rivelativi rispetto alle dinamiche della narrazione.

Il protagonista testimonia l’importanza di raccontare la propria storia, anche quando non trova ospitalità: «Quando so che qualcuno sta ascoltando e che quella persona vuole sapere tutto quello che riesco a ricordarmi, sono in grado di far riemergere tutto. (…) Al mio arrivo in questo paese raccontavo storie silenziose. Le raccontavo alla gente che aveva commesso un torto nei miei confronti. Se qualcuno mi passava davanti in coda, se qualcuno mi ignorava, mi urtava o spingeva, io li fissavo, senza distogliere lo sguardo, sibilando storie silenziose. Tu non capisci, gli dicevo, non aggiungeresti altra sofferenza alla mia vita se sapessi che cosa ho visto io (…) Riesci a immaginare? Quando avevo smesso di raccontare a quella persona, continuavo a narrare le mie storie. Lo faccio ancora oggi, e non solo con quelli che mi hanno fatto un torto. Queste storie emanano da me in ogni istante di vita e di respiro, e io voglio che tutti le ascoltino». Lo sottolinea con forza anche Francesco nel suo messaggio: «Quante storie reclamano di essere condivise, raccontate, fatte vivere!». Il protagonista del romanzo di Eggers si rivolge proprio al lettore: «Mi dà forza, una forza che ha dell’incredibile, sapere che ci sei. Desidero i tuoi occhi, le tue orecchie, lo spazio tra noi che può ridursi in un secondo. Quanta fortuna abbiamo, nell’avere l’un l’altro? Io sono vivo e tu pure, e per questo dobbiamo riempire l’aria delle nostre parole. E la riempirò oggi, domani, ogni giorno finché non tornerò a Dio. Racconterò storie alla gente che ascolterà e anche a quelli che non vogliono ascoltare, alla gente che viene a cercarmi e alla gente che mi sfugge. E saprò sempre che ci sei. Come potrei far finta che non esisti? Sarebbe impossibile, come lo sarebbe per te far finta che non esisto io».

Per chi non può raccontare

Raccontare dà la vita, raccontare salva la vita. E il fatto che per molti e molte le condizioni di un buon racconto vengano meno costituisce un forte appello alla responsabilità. «Perché tu possa raccontare» è il titolo che il Papa ha scelto per il suo messaggio, a ribadire il potere e la potenzialità di ogni racconto, frase, parola: «La parola ci pone sempre di fronte a una scelta: o farsene servi con la responsabilità, o farsene padroni con la manipolazione» (Luciano Manicardi).

Responsabilità è imparare a stare in modo generativo là dove nascono i grandi racconti di questo tempo. È scegliere attentamente le storie che ci raccontiamo, imparando a raccontare bene il bene anche in tempi difficili. Scriveva David Foster Wallace che ciò che definisce un’opera d’arte, e dunque un buon racconto, è «la capacità di individuare e fare la respirazione bocca a bocca a quegli elementi di umanità e di magia che ancora sopravvivono ed emettono luce nonostante l’oscurità dei tempi».

Anche nel corpo a corpo con il male, in definitiva, l’importante è non interrompere il racconto. Responsabilità significa essere attenti ai diversi punti di vista, e chinarsi sui racconti di ciascuno, dargli spazio, custodirli, perché ciascuno possa avere voce e narrare — un fatto, un sogno, un amore, il tempo della pandemia, la crisi ambientale. Eduardo Galeano descriveva così il narratore: «Quest’uomo, o donna, è affollato di gente. Gli esce da ogni poro. Così lo raffigurano, in statuette di argilla, gli indios del Nuovo Messico: il narratore, colui che racconta la memoria collettiva, è tutto uno sbocciare di personcine».

Auguriamoci — come comunità, paese, Chiesa — di saper ospitare la polifonia dei racconti in cui la vita delle persone continua a sbocciare.

 

(Da L'Osservatore Romano, giovedì 9 luglio 2020)