09 aprile 2020

La forza della parola (di Nicola Lagioia)

Tra letteratura e lingua del potere

 

di Nicola Lagioia (da L'Osservatore Romano, giovedì 9 aprile 2020)

 

Il recente messaggio di Papa Francesco per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, può contribuire a riaccendere la discussione su quale sia il compito della letteratura, e su che cosa distingue questa forma di racconto rispetto ad altre dotate di ben più potenti megafoni. Non si è mai scritto e non si è mai letto così tanto come nell’epoca dei social. Non si è mai travisato tanto come nell’epoca delle fake news. E — davanti allo storytelling del potere — ci si lascia manipolare esattamente come è sempre successo. William Shakespeare, Gustave Flaubert o Elsa Morante sono ancora degli ottimi antidoti davanti agli inganni (anche linguistici) di chi fa di raggiro e prevaricazione la propria ragione di vita.

Un romanzo. Un tweet. Il comizio di un politico. Uno scoop scandalistico. Una campagna di diffamazione a mezzo stampa. Una campagna d’odio on line. Uno slogan pubblicitario. Sono tutte forme narrative fatte di parole. Ma c’è parola e parola. Cosa ad esempio distingue, o dovrebbe distinguere, le parole usate per la costruzione di un buon romanzo dalle parole della cosiddetta lingua “manistream” che oggi domina il discorso pubblico? Innanzitutto il fine. La lingua del potere (di questo stiamo parlando) ha come scopo la persuasione, la lingua letteraria si sforza al contrario innanzitutto di comprendere. Il potere vuole, la letteratura cerca. Il potere punta a persuadere i propri potenziali sudditi sfoggiando solo risposte (inevitabilmente fallaci) per i problemi del mondo. La letteratura prova a esplorare la complessità dell’uomo sollevando le giuste domande. Tradurre misteri con altri misteri. La lingua del potere è pubblicitaria (basica, bidimensionale, ingannevole, in definitiva violenta quanto più riduce la natura umana a un unico impulso: comprate! odiate! adorate! votate!), la letteratura è complessa e multistrato anche negli scrittori che fanno della semplicità la propria cifra.

Soprattutto, la lingua del potere ha brama di giudicare e, se possibile, punire, o meglio di istigare i propri sudditi a farlo: condanna e lapidazione sono il suo piacere supremo. Le folle gonfie d’odio, manipolate senza rendersene conto, commettono tragici errori sin dai tempi di Barabba, e continuano a farlo oggi dotate di uno smartphone. La letteratura, al contrario, preferisce il comprendere al giudicare, e se proprio volessimo tradurla in termini giudiziari diremmo allora che è un’istruttoria interminabile, un’istruttoria non finalizzata a gradi di giudizio.

La lingua del potere, liberando i bassi istinti dei propri sudditi, in realtà li incatena a sé. La lingua letteraria, raccontando in modo profondo gli esseri umani nella loro solitudine e nelle loro comunità, mettendo in scena in maniera complessa il dolore, la brama, le sconfitte, la rabbia, le illusioni, le gioie, le debolezze, la tracotanza, l’umiltà, la violenza, la compassione, la paura e i sogni che fanno di noi ciò che davvero siamo, spezza temporaneamente queste catene, riesce inaspettatamente a liberarci.

È quest’ultima, credo, la differenza fondamentale tra la parola che inganna e rende schiavi, e quella — la porta stretta della poesia e dei grandi romanzi — capace di renderci uomini.